JAZZIT - Jazz Magazine
I tanti percorsi possibili del jazz
Speakers’ Corner
 
di Giovanni Palombo
Photo Credit To Sebastiano Privitero
Fonte: Jazzit.it
 
Colgo volentieri l’invito di Jazzit di scrivere qualcosa riguardo un tema che mi sta molto a cuore, e che in fondo permea la gran parte del mio percorso musicale: l’incontro tra il jazz e le proprie radici culturali. Musicalmente mi sento italiano, con un lascito mediterraneo, e probabilmente rinascimentale, che voglio sempre esprimere. C’è una forza melodica che arriva da lontano, che si lega ai colori dei nostri luoghi; c’è un desiderio di bellezza che è un patrimonio arcaico e che percepiamo in un modo vago ma definito. E, sempre in senso musicale, mi sento anche europeo; come non amare e riconoscere la musica classica del Centro-Europa, quella francese, quella russa e quella spagnola? Anche se non lo sappiamo, per molti essa agisce più o meno consapevolmente, al pari di tutto il rock che abbiamo ascoltato e frequentato più direttamente.

Credo che l’incontro degli stili, la contaminazione, sia il motore che muove la musica. Soprattutto muove il jazz, che nasce proprio come incontro (e anche scontro), di culture diverse. Se si nasce a Roma, a Bologna o a Palermo, nella maggior parte dei casi si esprime qualcosa del retroterra e della cultura che volendo o no si porta dentro, anche se si è ascoltato soltanto jazz americano.

Si tratta allora di prendere coscienza di questo e poi, seguendo le proprie inclinazioni, muoversi più liberamente, e cercare la propria identità. Di fatto è un aspetto che nel jazz si ritrova più spesso di quanto si creda. Nel jazz italiano abbondano gli esempi di inserimenti musicali che diventano jazz ma che partono come retaggio culturale: è capitato nel luglio del 1985, quando João Gilberto si cimentò sul palco del Montreux Jazz Festival, in una struggente versione di Estate di Bruno Martino: da allora si è visto che la canzone italiana poteva essere rivisitata sulle corde dell’idioma afroamericano senza per questo risultare leziosa, anzi. Aldo Romano incise due bellissimi dischi che riprendevano alcuni evergreen della melodia italiana, brani che solo pochi anni prima avrebbero fatto storcere il naso a molti: prima di quei due dischi«soltanto l’idea di una versione jazz di ‘O sole mio o Volare avrebbe fatto rabbrividire»(cito dal bellissimo libro di Nicola Gaeta Una preghiera tra due bicchieri di gin, Caratteri Mobili, 2011).

Da allora in poi l’idea di costruire un jazz che toccasse anche i molti “idiomi” italiani non si è più fermata, inventando strade nuove e nuovi incontri: e cito per tutti il bellissimo “Nauplia” di Rita Marcotulli e Maria Pia De Vito, uscito alla fine degli anni Ottanta. Il jazz ha sempre inglobato gli stili per dire cose nuove e diverse. Pensiamo alle produzioni ECM, al jazz così diverso di Jan Garbarek e dei musicisti europei del Nord-Europa,  alle contaminazioni di Ralph Towner e degli Oregon, e poi ancora a Egberto Gismonti. Qualcuno dirà che non è jazz. Ma certamente dentro questa musica c’è il jazz come spirito e azione viva, perché la ricerca supera continuamente i confini degli stili. Del resto questo è un procedimento che in modo anche più evidente: è avvenuto con il rock, grazie anche al contributo di Miles Davis che ha generato nuovi percorsi; e anche in questa circostanza ugualmente dovremmo dire (grande eresia), che Miles in quei casi non fa jazz; e qualcuno lo ha anche detto e scritto.

Forse nel caso italiano si è stabilito per anni una sorta di tabù rispetto alla nostra musica tradizionale, ai riflessi mediterranei, e forse spaventati dal liscio e dalle ninne nanne popolari ci si è dovuti sdoganare da una sorta di provincialismo, negando la provenienza e coltivando solo quello che più lontano da essa poteva essere. E probabilmente questo è servito ad aprire orizzonti nuovi, a migliorare il livello, a incamerare visioni e tecniche che portassero avanti.

Mi sono sempre occupato di musica acustica, suono chitarre acustiche e classiche, e la mia musica si basa su sonorità acustiche. Sono stato il primo a stupirmi scoprendo che il mio percorso, all’inizio vicino ai filoni anglosassoni (mai sentito parlare di Pentangle, JohnRenbourn, etc?), e al blues tradizionale, deviasse verso le inflessioni mediterranee e quelle della musica classica, e che lo studio dell’improvvisazione e dell’armonia moderna portasse a situazioni nuove e più ampie, che tenevano conto in modo più o meno inconsapevole, della mia eredità culturale.

Sono passato attraverso diverse esperienze, concerti e produzioni discografiche, e attualmente  sono giunto a un quartetto chiamato Camera Ensemble, dove la musica, tutta originale, nasce proprio dall’incontro di elementi diversi, etnica, jazz, qualche passaggio classico. Anche la strumentazione è particolare, perché oltre alle mie chitarre acustiche è data dal clarinetto e sax di Gabriele Coen, dal violoncello di Benny Penazzi e dai tamburi a cornice (propri della tradizione popolare italiana ma più in generale mediterranea ), di Andrea Piccioni.

Trovo che il bello sia proprio che non si finisce mai di apprendere e di stupirsi dei tanti percorsi possibili, come non si finisce mai di cercare un suono, un lessico, una forma, per raccontare al meglio quello che si vuole dire.