Giovanni Palombo - Fingerstyle World Jazz

recensioni

recensioni (24)

OnLine-JazzNet 
Gerlando Gatto | 04/Feb/2020 

“Taccuino di Jazz popolare” di Giovanni Palombo
Il chitarrista Giovanni Palombo è anch’egli una vecchia e cara conoscenza di “A proposito di jazz”. Con lui mi lega un rapporto, non di ieri, basato su stima professionale e umana. Giovanni Palombo è un musicista sotto molti aspetti atipico; non cerca a tutti i costi la luce dei riflettori e non ama entrare in sala di incisione se non ritiene di avere qualcosa di buono da dire. Ecco, in questo “Taccuino di Jazz Popolare”, Giovanni, ben coadiuvato da Gabriele Coen (clarinetto e sax), Pasquale Laino (sax ed elettronica), Benny Penazzi (violoncello), Alessandro D’Alessandro (organetto) e Francesco Savoretti (percussioni), ribadisce, attraverso le sue più recenti composizioni, i punti fondamentali della sua poetica. Vale a dire una concezione musicale che abbraccia diversi generi, dalla world music all’ethno jazz, al folk… senza trascurare riferimenti alla musica araba e a quella colta, soprattutto quando entra in azione lo stupefacente violoncello di Penazzi. Così l’ascoltatore è trasportato in una sorta di viaggio immaginario in cui l’omaggio agli Oregon si sposa con la “luna rossa” di Istanbul, o la toccante “Preghiera della madre” è seguita da un brano che trae ispirazione da un detto tradizionale romano “A Li Santi Vecchi Nun Se Dà Più Incenso”. Il tutto giocato sulla base di una perfetta intesa in cui, ferma restando la valenza di tutti i musicisti, mi piace sottolineare da un canto l’espressività di Palombo, che va ben al di là della semplice conoscenza strumentale, e il lavoro “di fino”, se mi consentite l’espressione, di Francesco Savoretti che con le sue cangianti e colorate percussioni ha offerto un sostegno preciso, incalzante e soprattutto mai invadente. Come si accennava, il disco è stato successivamente presentato in concerto (alla Casa del Jazz di Roma, gennaio 2020), con un organico un po’ diverso dal momento che mancavano Laino e D’Alessandro. Ma il risultato è stato in ogni caso superlativo. Il quartetto si è mosso lungo le direttrici cui prima si faceva riferimento evidenziando la capacità di fondere le diverse esperienze e personalità in un unicum di rara e preziosa originalità. Davvero trascinanti i dialoghi tra Coen e Palombo e ancora una volta prezioso il contributo del già citato Francesco Savoretti. Gerlando Gatto.

Giovanni Palombo: Taccuino di Jazz Popolare 
By MARIO CALVITTI
December 29, 2020

Nuovo album del chitarrista romano Giovanni Palombo, che segue di tre anni il precedente Retablo, raccoglie materiale da tre dei suoi ultimi progetti: il quartetto Camera Ensemble con Gabriele Coen, già attivo da diversi anni, e i più recenti duetti con il sassofonista Pasquale Laino e con il suonatore di organetto Alessandro d'Alessandro. Il disco rappresenta pertanto una escursione ad ampio raggio nella musica di Palombo, che ha modo di evidenziarne tutti gli elementi principali: dal jazz del quartetto, che fa la parte del leone con quattro dei nove brani complessivi, alla matrice più popolare nei duetti con l'organetto e a un lato un po' più sperimentale nei duetti con il sax soprano (e soprattutto l'elettronica) di Laino, questi ultimi rappresentati con due brani ciascuno. Non manca infine un brano di sola chitarra acustica, per ricordarci che Palombo è un ottimo rappresentante dello strumento.

La separazione tra i diversi elementi musicali non è comunque netta, in quanto tutte le diverse influenze si amalgamano e trovano realizzazione nella scrittura di Palombo, che è autore di temi squisitamente melodici e intrisi di un'intensa mediterraneità. Il jazz, in versione cameristica per la presenza del violoncello, è prevalente nei brani del quartetto, particolarmente nell'iniziale "A Touch of Oregon," tributo-omaggio al gruppo che rappresenta una delle principali fonti di ispirazione per il chitarrista. "Folk Danza" e "Scena Tango" sono duetti tra chitarra e organetto che evidenziano le radici popolari senza rinunciare allo swing, mentre i duetti col sax di Laino provano a realizzare una sintesi tra passato e futuro in "Scarborough Fair" elaborando uno dei temi più noti del folklore internazionale con l'elettronica applicata al suono del sax soprano, e la conclusiva "Luna Rossa a Istanbul" chiude il disco mettendone insieme tutte le diverse anime.

Oltre alla già ricordata capacità di scrittura, va riconosciuta al chitarrista il merito di saper sviluppare una grande empatia con tutti i musicisti che lo accompagnano, evidenziata da una forte espressività negli interventi solistici e una totale adesione al progetto musicale. Da segnalare infine che il disco è stato realizzato con una campagna di crowdfunding ed è pubblicato e distribuito da Emme Record Label.

Track Listing
A Touch of Oregon; Scarborough Fair; Retrobottega di barbiere; Folk danza; Meltemi; La preghiera della Madre; A li santi Vecchi non si dà più incenso; Scena Tango; Luna rossa a Istanbul.
Personnel
Giovanni Palombo: guitar; Gabriele Coen: saxophone, soprano; Benny Penazzi: cello; Francesco Savoretti : percussion; Pasquale Laino: saxophone, soprano; Alessandro d'Alessandro: accordion.
Album information
Title: Taccuino di Jazz Popolare | Year Released: 2020 | Record Label: Emme Record Label 

Jazz Blues Black − Jazz − Fingerstyle World Jazz
Giovanni Palombo-Taccuino di Jazz Popolare
2019 - Emme Record Label 07/03/2020

- di Laura Bianchi - www.mescalina.i
t
https://www.facebook.com/share.php?u=https://www.mescalina.it/musica/recensioni/giovanni-palombo-taccuino-di-jazz-popolare- https://twitter.com/home?status=https://www.mescalina.it/musica/recensioni/giovanni-palombo-taccuino-di-jazz-popolare- https://plus.google.com/share?url=https://www.mescalina.it/musica/recensioni/giovanni-palombo-taccuino-di-jazz-popolare-

Coraggioso, il chitarrista e compositore Giovanni Palombo, che si è fatto aiutare da Gabriele Coen (clarinetto e sax), Pasquale Laino (sax ed elettronica), Benny Penazzi (violoncello), Alessandro D’Alessandro (organetto) e Francesco Savoretti(percussioni), per confezionare un disco coinvolgente e innovativo.Coraggiosa, l`etichetta EmmeRecordLabel, che segue il discorso di un jazz popolare, accattivante, mai banale o superficiale: e Taccuino di jazz popolare è un egregio esempio di come si possa riuscire a essere colti senza diventare spocchiosi, immediati senza essere scontati, e convincere sia l`ascoltatore meno esperto, sia l`appassionato più esigente.Raffinatezza e spontaneità si coniugano nelle otto tracce originali di Palombo, che ha scelto di inserire anche un omaggio di eccezione alla folk song Scarborough Fair, dai colori vividi come un prato inglese dopo la pioggia. Il viaggio compositivo del chitarrista si arricchisce di sfumature sempre nuove, dall`Oriente di Meltemi, che si apre, dopo un assolo di Palombo, a percussioni e a un incalzare ipnotico e suadente, o di Luna rossa a Istanbul, notturna ed evocativa, dall`affascinante alternanza di timbri e ritmi, fino all`America Latina di Scena Tango, con l`organetto in bella evidenza, passando per l`Oregon che dà il titolo alla prima traccia, in cui la dimensione jazz si fa più spiccata e l`arrangiamento da quartetto esalta l`interplay fra i musicisti, tutti al servizio di un`atmosfera da jam session, che rende perfettamente il clima dei live del gruppo.Menzione d`onore per l`intensa La preghiera della madre, autentica perla, composta di un`interazione fra suono e silenzio, pause e echi, che non può che sottolineare il messaggio intimo del brano, lettera di amore di Palombo alla madre, in cui tutti gli ascoltatori possono riconoscersi; e per la torrenziale A li santi vecchi nun se dà più incenso, autentica suite quasi cameristica, in cui il clarinetto di Coen guida parte della linea melodica, seguito da una serie di contributi preziosi, come quello del violoncello di Penazzi, mentre le corde di Palombo si inseriscono con delicatezza e incisività nell`andamento del brano. Coraggioso lavoro, da premiare con un ascolto ripetuto e appassionato, popolare e profondo insieme, come è il messaggio che Palombo e soci intendono trasmettere.

Jazz It, Marzo 2020
L’ultimo lavoro del fingerstyler romano.

Si intitola “Taccuino di jazz popolare” l’ultimo lavoro di Giovanni Palombo pubblicato dalla Emme Record Label; il chitarrista romano presenta un crocevia tra jazz, musica mediterranea e tradizioni popolari, un vero block notes fatto di notazioni musicali, idee e scampoli di brani che nel corso del tempo sono diventati composizioni complete.
I brani, tutti originali (tranne Scarborough Fair) sono eseguiti sia dal quartetto Camera Ensemble che vede oltre al chitarrista la presenza di Gabriele Coen (sax-clarinetto), Benny Penazzi (violoncello), Francesco Savoretti (percussioni) sia dal duo chitarra-organetto con Alessandro D’Alessandro e da quello con Pasquale Laino (chitarra-sax, electronics).

Fabio Ciminiera
Jazz Convention, 14 Apr. 2020

Emme Record Label - ERL1910 - 2019

Giovanni Palombo: chitarra acustica, chitarra classica
Gabriele Coen: clarinetto, sassofoni
Benny Penazzi: violoncello
Francesco Savoretti: percussioni
Pasquale Laino: sassofoni, elettronica
Alessandro D'Alessandro: organetto

La musica popolare e i suoni della chitarra come punto di incontro di un mondo sonoro sfaccettato e accogliente. Le tradizioni musicali italiane e mediterranee, i suoni acustici e il senso della melodia sono senz'altro al centro del disegno proposto da Giovanni Palombo: un nucleo che si anima poi di riferimenti diversi, utilizzati sempre in maniera funzionale e coerente, senza snaturare il filo espressivo tracciato dal chitarrista. Le suggestioni provenienti dal jazz e dalla musica classica così come gli inserti elettronici offrono di volta in volta possibilità espresive diverse e, allo stesso modo, la scelta di variare l'organico, a seconda dei brani. In questo modo, le atmosfere variano in maniera naturale e tracciano un percorso che si snoda fluido e coerente. Non manca, poi, uno sguardo fuori dai confini territoriali di "appartenenza", con il rimando di apertura agli Oregon (A Touch of Oregon) e alle tradizioni anglosassoni (Scarborough Fair) e, poi, con le traduzioni del tango (Scena Tango) e delle influenze orientali (Meltemi e Luna Rossa a Istanbul) nel linguaggio musicale di Palombo. Se la dimensione popolare, folklorica e basata sulle tradizioni, viene utilizzata con rispetto nei vari contesti, l'intenzione è però quella di mettere in luce i possibili riflessi scaturiti dagli incontri e dalle, pur discrete, ibridazioni. Se il quartetto evidenzia la declinazione più jazzistica, la particolare line up (chitarra, sassofono, violoncello e percussioni) e il nome scelto (Camera Ensemble) qualificano l'attitudine cameristica e il passo agile della formazione in una sintesi sempre essenziale e misurata tra le varie ispirazioni. L'interpretazione in chitarra solo de La preghiera della madre esplora una dimensione intima e melodica ma allo stesso tempo in grado di descrivere e rendere vivide le tensioni emotive. I due incontri in duo riflettono due scelte differenti: languido, rivolto ad esaltare il senso della danza e, complessivamente, più vicino alle tradizioni popolari l'incontro con l'organetto di Alessandro D'Alessandro in Folk Danza e Scena Tango; più trasversale con i sassofoni e l'elettronica di Pasquale Laino in Scarborough Fair, Luna Rossa a Istanbul. Una connotazione importante dell'approccio proposto da Giovanni Palombo è raccolta nella parola "taccuino" presente nel titolo. Il riferimento a un lavoro condotto con pazienza per serbare tutto il sapore delle sottigliezze, dei ricordi e dei dettagli: un'attenzione artigianale nella raccolta degli elementi e nella successiva trasmissione e condivisione con gli altri musicisti e con gli ascoltatori. Ed è, in effetti, questo il sentimento che passa attraverso i nove brani del disco: raccogliere gli spunti delle tradizioni, condividerli attraverso la rielaborazione e la scrittura, l'improvvisazione e l'idea del suonare insieme e, infine, tramandarli in una forma che se, da una parte, lascia vedere chiaro il punto di partenza, il rispetto per la storia e i linguaggi, dall'altra mette a confronto questo materiale con il mondo variegato e plurale di oggi. Segui Fabio Ciminiera su Twitter: @fabiociminiera

ROMA JAZZ , Gennaio 2020

Giovanni Palombo, Taccuino di Jazz Popolare, Emme Records Label 2019 Un’anima mediterranea per un Jazz popolare, tessuto negli ampi riferimenti alla “Musica del Mondo”, a Blue Notes di tendenza etnica, a venature di musica classica: un Taccuino come agenda personale di pentagrammi di un’espressività melodica che appare evidentemente connaturata all’estro naturale di Giovanni Palombo.Taccuino di Jazz Popolare: popolare così come popolare è il Jazz per nascita ed evoluzione. Popolare come popolari sono le scelte del chitarrista romano che prelude la performance con un bellissimo omaggio ai precursori della world music fusion, gli Oregon, la band del geniale Ralph Towner pater in pectore del Nostro (A touch of Oregon) in perfetta coniugazione con il pluriculturale soprano dell’eccellente Gabriele Coen e l’abile percussionismo di Francesco Savoretti.    Popolare come il fingerstyle (il tocco delle dita sulle corde, senza plettro) di cui Giovanni Palombo è sicuramente maestro; popolare come l’amore per le tante varianti culturali del Mare Nostrum, per l’ improvvisazione (cosa di più popolare del realizzare forme artistiche all’istante?), per il canto lirico nuovissimo e distonico di Scarborough Fair (a ricordare la notissima versione di Simon & Garfunkel del 1966 per la ballata di fine 600) ed i fuggenti guizzi di Pasquale Laino al sax soprano in Luna rossa a Istanbul.Popolare come le radici folk nell’uso leggero ed evanescente dell’organetto di Alessandro D’Alessandro in Folk Danza e nel proverbiale romanesco A li santi vecchi nun se dà più incenso (verissimo: “le cose nuove fanno dimenticare quelle antiche”); radici impreziosite in Meltemi dalle vivide screziature del violoncellista Benny Penazzi ; radici come in ogni brano di questo album dalle memorie longeve, antiche e moderne nell’arrangiamento, sicuramente italiane nelle intenzioni e nelle raffinate ed istintive conclusioni realizzate in un live in studio, come si addice tanto al Jazz quanto alla musica popolare.Come diceva Charlie Parker:”dopo aver tanto ragionato, pensiamo a suonare”. Fabrizio Ciccarelli
chitarra acustica

 Fonte: Chitarra Acustica - Giugno 2016

 articolo in pdf

SOLO O BEN ACCOMPAGNATO
intervista a Giovanni Palombo (
di Andrea Carpi)

Dopo i suoi due ultimi lavori per Fingerpicking.net, il disco in duo con Maurizio Brunod, Tandem Desàrpa del 2012, e il metodo Improvvisazione fingerstyle dell’anno seguente, Giovanni Palombo è tornato a incidere un quarto album per l’Acoustic Music Records, del quale scrive nelle note di copertina: «Ho preso il titolo Retablo dal libro omonimo di Vincenzo Consolo. Il suono della parola mi ha affascinato, un termine che in spagnolo indica le pale di altare, dittici, trittici e polittici, che contengono dipinti diversi ma storie tra loro correlate. In modo analogo i brani del CD, ispirati da storie ed emozioni diverse, sono diversi ma legati tra loro da trame percettibili». Le varie letture di questo filo conduttore unitario si traducono in otto composizioni originali e una cover di “Goodbye Pork Pie Hat”, che sono state registrate nel corso di un anno circa in diversi studi in Italia e all’estero, e che si alternano in quattro esecuzioni in solo e in cinque prestigiosi duetti con Peter Finger, Claus Boesser-Ferrari, Luis Borda, Michael Manring e il suonatore di oud Khyam Allami. Dove Giovanni conferma la sua brillante vena di compositore e di arrangiatore, a metà strada tra melodia mediterranea, fingerstyle e jazz.

Come è stato registrato Retablo, soprattutto per quanto riguarda la parte dei duetti? Sono stati registrati perlopiù in diretta, in diversi studi?
- Sì, dovendo registrare dei duetti con artisti provenienti da diversi luoghi, non potevo permettermi di far confluire tutti nello studio dove normalmente registro, quindi ho cercato di tener conto degli eventuali passaggi in Italia di alcuni di loro, oppure dei miei spostamenti fuori Roma o all’estero. Per esempio è successo che Claus Boesser-Ferrari veniva a Firenze a suonare, allora io l’ho raggiunto, ho preso uno studio a Firenze e abbiamo registrato; naturalmente sempre con un tempo relativamente breve a disposizione, che da una parte è stata la cosa migliore, perché i brani in questo modo sono venuti quasi live, dei live in studio: registravamo tre o quattro take e, successivamente, io ho scelto le tracce migliori. Con Peter Finger è successa la stessa cosa quando lui è venuto a suonare a Vicenza, ed io ho preso uno studio a Padova. Anche se, sia con Claus che con Peter, durante un mio tour in Germania dell’anno scorso, avevo avuto l’occasione di fare una prova casalinga in modo da cominciare a impostare il lavoro. Poi con Luis Borda, un chitarrista di tango argentino che vive a sua volta in Germania e che ha un proprio home studio, sempre durante quel mio giro in Germania sono andato a casa sua, abbiamo fatto delle prove e poi abbiamo registrato. Avevo già preparato le parti e gliele avevo mandate in anticipo... 

Ecco, su questo aspetto della preparazione delle parti, come è stato organizzato il lavoro?
- In modo piuttosto vario. All’inizio pensavo di scrivere abbastanza esattamente le diverse parti. Ma con Boesser-Ferrari, per esempio, ho voluto più che altro sfruttare la sua abilità nel costruire atmosfere improvvisate di effetti ritmici e sonori, piuttosto che chiedergli di suonare una parte. Quindi gli ho mostrato l’impostazione del brano, che era un mio arrangiamento di “Goodbye Pork Pie Hat”, lui ha avuto delle idee, ne abbiamo parlato insieme, ed è andata così...  
 
Che strumentazione ha usato per questo lavoro di effettistica?
- Ha usato la sua chitarra acustica Albert & Muller con una serie di pedali, la maggior parte dei quali sono realizzati artigianalmente, perché lui è molto specializzato su queste cose. Fondamentalmente ha usato un delay, un pedale del volume, un compressore e poco altro; era un set abbastanza semplice, perché era in viaggio e aveva la stessa valigetta di effetti che aveva usato in concerto.
 
Tornando alle parti che hai preparato: essendo tu un jazzista, cosa intendi per scrivere una parte? Intendi un canovaccio, una struttura, o una parte precisa?
- Dipende dal brano. Se sono previsti degli obbligati, delle frasi che vuoi che l’altro strumento esegua, le scrivi. Ma se per esempio devi suonare un giro blues, una volta stabilita la tonalità, il procedimento normalmente è semplice, va da sé; e se magari c’è qualche passaggio di accordi particolari, lo segnali. Invece il tango de “Il sommo artigiano”, che ho suonato con Luis Borda, è completamente scritto e arrangiato per due chitarre; gli ho mandato le due parti per email e lui ha imparato la sua parte. Dopodiché ha suggerito qualche aggiustamento, ha espresso delle preferenze. Per esempio c’era una parte del tema che lui ha voluto eseguire un’ottava sopra, rispetto a come l’avevo scritta io, perché secondo lui legava meglio con la contromelodia che suonavo io. Questi aggiustamenti sono sempre bene accetti, perché ti danno una visione del brano ‘dal di fuori’, e quindi generalmente migliorativa, a confronto con la visione che hai tu. Invece con Peter Finger avevo scritto una parte che lui, siccome usa la sua accordatura Mi Si Mi Sol La Re, non ha potuto seguire quasi per niente, se non nel giro degli accordi. Il fatto di usare questa accordatura particolare gli imponeva, nella lettura, di trovare nuove posizioni e aggiustamenti. D’altronde quella parte io l’avevo pensata nell’accordatura standard, perché non potevo improvvisarmi su un’accordatura che non uso mai. E quindi Peter semplicemente ha imparato la melodia, ha visto le sigle degli accordi, quindi ha trovato lui le posizioni e i frammenti di arpeggi ade- guati. Poi abbiamo fatto un paio di prove piuttosto lunghe.
 
Sempre per quanto riguarda gli studi di registrazione che hai utilizzato, di volta in volta come li hai scelti?
- Ho chiesto ad amici musicisti del posto, che ringrazio, se potevano suggerirmi uno studio che offrisse una buona mediazione tra qualità e costo. Per la zona di Vicenza ho chiesto al bassista Toni Moretti e poi ho interpellato Luca Francioso a Padova, che è molto attento alle problematiche del suono e mi ha indirizzato al True Colors Studio di Mauro Santinello. Per Firenze ho chiesto a Finaz, che mi ha suggerito il Wall Up Studio di Paolo Bagnoli. Diciamo che questa ricerca era importante soprattutto per la persona del fonico, perché ormai le attrezzature tecniche hanno raggiunto una qualità tale che funzionano bene anche a un livello base. Invece ritengo sia importante che il tecnico di studio sia un professionista abituato a trattare le chitarre acustiche, perché mi sono trovato talvolta in studi nei quali il fonico, che nel novanta per cento dei casi registra rock, blues o simili, quando si trova di fronte alla chitarra acustica non mostra di avere idee sufficientemente chiare. E allora lì c’è da discutere e spesso non rimani soddisfatto del suono.
 
Quindi, alla fine ti sei trovato con diversi materiali registrati in vari studi, più i tuoi brani solisti registrati a Roma. Come è stato coordinato il tutto a livello sonoro?
- Il mio tecnico di fiducia, Dario Arcidiacono, ha uniformato il tutto in fase di missaggio nel suo studio Arcidiapason. Ne abbiamo parlato prima e lui mi ha detto che bastava fossero rispettati determinati parametri tecnici, affinché lui potesse accedere correttamente con il suo computer. A queste condizioni l’equalizzazione finale, l’aggiustamento dei riverberi, la compressione finale del suono avrebbe potuto realizzarli agevolmente, perché ormai i sistemi sono compatibili. Per esempio, in alcuni studi usavano ProTools, mente lui usa Cubase, e anni fa i due sistemi non dialogavano, erano concorrenziali, invece adesso sono compatibili.  
 
Non è una novità per te realizzare dei duetti, però finora avevi sempre interagito con musicisti a te vicini, del tuo giro, che magari facevano parte di un tuo gruppo e con i quali forse potevi avere un controllo maggiore sugli arrangiamenti, sulle parti. Invece in questo caso hai contattato dei musicisti in qualche modo ‘esterni’: questo ha determinato dei cambiamenti?
- Diciamo che se un brano lo hai scritto tu e lo proponi tu, è chiaro comunque che le indicazioni prima- rie le devi dare tu. L’interessante secondo me è proprio questo: tu dai all’altro la visione di un brano, in un certo senso neutra, poi gli dici come la sentiresti tu, dopodiché la cosa importante è proprio l’interazione con una persona che ha una musicalità, una sensibilità e una tecnica diversa dalla tua. Quindi ne viene fuori una cosa che tu soltanto parzialmente potevi ipotizzare.
 
In relazione a questa interazione con i diversi musicisti, come ti sei orientato nella scelta dei brani da proporre? È una scelta che hai fatto precedentemente o che hai maturato man mano?
- È una scelta che ho fatto precedentemente. L’uni- co caso in cui è entrata in gioco una sollecitazione diversa è stato con Peter Finger: di “Anna e Mauri- zio”, un mio vecchio pezzo che risale all’album Zen Bel Jazz del 1999, Peter conosceva già il tema, perché lo avevo reinciso in una versione quasi unicamente a note singole nel mio precedente disco solistico per la Acoustic Music Records, La melodia segreta del 2011; vi era stato inserito come coda finale su idea dello stesso Peter, che sentiva l’esigenza di chiudere quell’album con una linea melodica essenziale, perché il disco era abbastanza articolato, con brani anche complessi. E a lui questo tema era piaciuto molto, ne rea rimasto impresso e continuava a canticchiarlo. Così mi è venuto in mente di riprendere l’intero brano, che sicuramente poteva trovare il suo favore; anche perché presenta una prima parte abbastanza semplice come armonia, la classica cadenza frigia discendente della musica flamenca, su cui si è capito subito che era facile intervenire e che poteva uscirne qualcosa di interessante, per la dinamica e l’interazione. Invece la seconda parte, quella lenta centrale, era più complessa come accordi, per cui abbiamo deciso che lui avrebbe suonato soltanto la linea melodica a note singole e io la parte armonica, che era più jazzistica; questa parte poi sfocia nell’improvvisazione, in cui ci siamo alternati. E il brano ci ha soddisfatto molto in questa maniera.  
 
In questo brano mi ha molto colpito la sua introduzione, che è molto flamenca.
- Esatto, perché la cadenza armonica andalusa in un certo senso porta in quella direzione. Avevamo deciso di fare un’introduzione e abbiamo suonato lì per lì tre o quattro take di improvvisazioni di poche battute ciascuno, in cui ci alternavamo. Poi io a posteriori ho scelto quella che ritenevo più interessante
 
Mi ha fatto pensare a quello che Finger diceva nell’intervista che abbiamo pubblicato sul numero di aprile, a proposito del suo brano “Getaway”, nato come esercizio tecnico dopo aver ascoltato Vicente Amigo. Peter notava come vi avesse inserito delle frasi flamenche che, siccome le aveva suonate nella propria accordatura, venivano in maniera diversa.
- Infatti l’idea è stata proprio quella, evidentemente è una cosa che lui ha nelle sue corde, nelle sue dita.  
 
Un’ultima cosa su Peter Finger: un po’ mi ha stupito che lui abbia accettato di registrare non nello studio suo.
- Beh, nel mio tour in Germania dell’anno scorso ero stato appunto nel suo studio, dove abbiamo fatto una prova del brano. Però il tempo era veramente poco, il pezzo aveva bisogno di maturare e lui avrebbe dovuto riprovarlo e risuonarlo; inoltre io sarei dovuto ritornare lì dopo un giorno o due, ma non c’era la possibilità, perché dovevo spostarmi di città. Allora abbiamo deciso di approfittare del fatto che lui sarebbe dovuto venire in Italia poco tempo dopo per un concerto, visto anche che aveva un giorno libero.
 
Parliamo un attimo di Luis Borda, un chitarrista che esce un po’ dai nostri confini abituali del fingerstyle.
- È un chitarrista che ammiro moltissimo, è vera- mente molto bravo. A parte la tecnica, che comunque è una tecnica notevole, è anche un chitarrista che ha una maturità musicale riscontrabile solo in quegli artisti che hanno vissuto la vita mettendosi in gioco per quello in cui veramente credono musicalmente. È un chitarrista argentino di tango, che viene dagli ambienti del tango DOC e che in seguito si è trasferito ormai da una ventina d’anni in Germania, dove suona con gruppi di musica sudamericana, soprattutto argentina, e collabora con musicisti classici trasversali, che frequentano il tango. Di base ha una formazione classica...
 
Infatti suona con le dita, mentre i chitarristi di tango più ‘tradizionali’ suonano con il plettro sulla chitarra con corde di nylon...
- Sì, alcuni suonano con il plettro, è vero. D’altra parte ho scoperto che da giovane Luis suonava an- che il rock, suonava la chitarra elettrica con il plettro in band che hanno avuto una certa notorietà in Argentina.  
 
Questa cosa un po’ si nota nel suo modo di improvvisare...
- Un po’ forse si nota, sì. Però lui ormai suona fondamentalmente con le dita da molti anni. Usa delle chitarre con corde di nylon di liuteria argentina, in particolare costruite da Facundo Prola...
 
Che hanno un suono particolare, un po’ diverso dalle chitarre propriamente classiche, meno dolce, più vicino al suono della chitarra acustica...
- Sì, sono delle chitarre un po’ mirate per il tango... Il brano che abbiamo registrato insieme, come dicevo prima, l’ho arrangiato io e lui ha inserito solo alcune piccole modifiche, suonando poi un grandissimo assolo. Ed è stato bellissimo sia provare che registrare con lui, tutto si è svolto in una giornata. Noi avevamo già suonato insieme al Rieti Guitar Festival e in alcune occasioni in Germania, per cui un minimo di confidenza e di interplay costruttivo si era già creato tra noi, era facile ritrovarlo. Ma lui è veramente molto positivo nella musica, mi ricordo che a un certo punto, mentre registravamo, mi ha guardato e mi ha detto: «Giovanni, suoniamo solo note amiche!»  
 
E “W Paco” con Michael Manring?
- È un brano che abbiamo provato nel 2009 in occasione del concerto che ho fatto con lui alla Stazione Birra di Roma, ma non avevamo eseguito tut- te le sezioni, l’avevamo usato come ponte tra altri spunti musicali. Allora, visto che l’aveva già suonato e che gli era piaciuto all’epoca, mi è venuto in mente che potesse essere un pezzo adatto, anche in questo caso perché tutto sommato era abbastanza semplice armonicamente. A me interessava un suo intervento con la sua capacità di caratterizzare il suono e soprattutto di improvvisare. Esisteva già una prima traccia sonora dove c’era la parte del- la chitarra, che gli ho mandato insieme alla parte scritta, perché purtroppo il suo ultimo passaggio in Italia era avvenuto in tempi troppo stretti e non abbiamo potuto registrare qui il suo intervento. Così lui ha preso la mia parte e ha sovrainciso nel suo studio la parte di basso, che poi abbiamo mixato a Roma. E sono rimasto subito colpito dalla qualità e dalla sua immedesimazione con quello che il brano voleva dire. Secondo me è uno dei pezzi più belli del disco, vorrei dire non tanto per la validità della composizione in sé – anche se ovviamente mi piace – ma piuttosto per quello che si è originato dal suo modo di sovrapporsi. La sua introduzione e la sua improvvisazione sono state bellissime.
 
Chiaramente questo è un brano dedicato a Paco de Lucía, però al primo impatto non sembra richiamare molto la musica flamenca, anche se c’è qualcosa...
- Sì, devo dire onestamente che per questa composizione ho ripreso delle idee di pezzi precedenti, ma è presente comunque la cadenza andalusa di cui parlavamo prima...
 
E quindi, per te, cosa ha creato il legame con Paco de Lucía in questo brano?
- Il legame nasce, innanzitutto, dal fatto che si tratta di un artista che ho sempre ammirato enormemente. Poi è stata anche una questione di onestà da parte mia, perché pur ammirando quella musica, sono consapevole di non essere assolutamente in grado di suonarla; per me rappresenta tutto un altro mondo, non avrei mai potuto concepire una citazione flamenca degna di questo nome. E quindi ho pensato, quasi come un principiante, di utilizzare un elemento molto visibile che rientrava nella tradizione del flamenco, questa successione di bassi e di accordi molto semplice, in cui però ho cercato di costruire sulla melodia – che è molto mediterranea, molto brillante – un uso jazzistico di questi accordi, con molti rivolti, inserendo poi una parte di improvvisazione. Così, nello stesso tempo, c’è anche il richiamo a quella parte di de Lucía che si è voluta aprire a mondi diversi.
 
Dell’ultimo duetto con il suonatore siro-iracheno di oud Kyam Allami, “Oud Rendez-Vous”, avevi già parlato nell’articolo “Chitarra, oud, kora: un’esperienza t-ricorda”, su Chitarra Acustica di febbraio 2015.
- Qui si potrebbe solo aggiungere che c’è stato un lavoro enorme di Dario Arcidiacono, perché in questo caso avevamo a disposizione una registrazione dal vivo abbastanza scadente, realizzata nel dicembre 2014 in occasione del Festa d’Africa Festival di Roma, di cui scrivevo nel mio articolo. E lui è riuscito a migliorare moltissimo il suono. Rispetto agli altri brani del disco la qualità non è così alta, però ho preferito lasciare quella registrazione, perché in quella circostanza avevamo realizzato un interplay notevole; anche se il suono fosse stato di qualità inferiore, penso che avrei comunque tenuto quella registrazione.  
 
La mia prima impressione, rispetto all’alternanza di brani solisti e duetti che caratterizza questo disco, è stata appunto che Arcidiacono abbia realizzato effettivamente un ottimo lavoro per tutto l’insieme, perché il suono è molto omogeneo, compatto lungo tutto il percorso...
- Be’, calcola che noi collaboriamo ormai da vent’anni, lui mi conosce a memoria...
 
E poi anche dal punto di vista dei contenuti musicali, poiché è un disco di tutti strumenti a corde – se non di tutte chitarre, visto che ci sono anche l’oud e il basso – Retablo appare tanto più unitario e ‘forte’ di carattere rispetto ad altri tuoi dischi, che possono suonare più vari perché magari ti alterni con diverse formazioni strumentali, con strumenti diversi.
- Sì, abbiamo puntato proprio a questo, abbiamo lavorato molto insieme per questo. Io sono stato quasi sempre accanto a lui a dirgli quale tipo di sonorità cercavo, pensando anche alle caratteristiche dei vari chitarristi, in un certo senso però ‘piegandole’ timbricamente al modo in cui sentivo che dovesse suonare il disco. Questo è stato il vero lavoro che abbiamo portato avanti e, da questo punto di vista, anche il fatto che il disco è stato realizzato nell’arco di un anno, che la sua lavorazione è stata molto diluita nel tempo, ha avuto la sua importanza. È stato infatti molto utile poter riascoltare le varie registrazioni a una certa distanza di tempo.
 
Uno dei pezzi che suoni da solo s’intitola “Halleluja”: come mai questo titolo che mi ha fatto pensare a una cover del brano di Leonard Cohen, mentre è una tua composizione?
- Non ho mai pensato a questo, anche se poi il pezzo di Cohen mi piace molto. No, s’intitola “Halleluja” perché è un gospel. Visto che spesso i miei pezzi sono piuttosto meditativi e melodici, anche malinconici, in questo album ho voluto inserire alcuni brani che fossero più allegri, diciamo così più mossi, più vivaci. E questo “Halleluja” mi sembrava di buon auspicio, perché è un gospel ‘propositivo’!  
 
In “Viliotica” suoni da solo una chitarra con corde di nylon: è un po’ una novità per te...
- No, ho usato la stessa chitarra – una Lakewood M-32 CCP Grand Concert con corde di nylon, simile alla mia acustica M-32 CP – anche in un paio di brani del disco col quartetto Camera Ensemble del 2010...  
 
Be’, mi sembra che il suono delle corde di nylon si sposi bene con il tuo modo di suonare, in un certo senso addolcisce un po’ il tuo tocco, che è un tocco forte; se non altro in accordatura standard o in drop D, mentre le accordature aperte suonano comunque meglio con le corde metalliche...
- Sai, la chitarra con corde di nylon in qualche modo ha sempre fatto parte di me, nel senso che ho iniziato a suonare proprio con la chitarra classica e mi è sempre piaciuto recuperare ogni tanto quella sonorità. E nei concerti che sto facendo attualmente per promuovere Retablo, suono con le corde di nylon in quasi la metà dei brani. Per esempio un pezzo come “W Paco”, da solo lo suono con le corde di nylon.  
 
E poi c’è “Farewell to John”, che nelle note di copertina dedichi a «un Maestro», naturalmente a John Renbourn, del quale richiama certe sonorità.
- Sì, in questo brano mi sono ispirato alle vecchie ballate britanniche, volevo scrivere un pezzo lento, che in qualche modo evocasse quell’atmosfera, quel clima ambientale da cui Renbourn proveniva. In molte ballate lui usava proprio queste sonorità larghe, caratterizzate da arpeggi. E sono contento, perché devo dire che il brano continua a richiamarmi la figura di John.
 
Ed è un altro di quei pezzi tuoi con una melodia veramente importante.
- Infatti la ripeto più volte, e all’inizio mi chiedevo se non avessi esagerato nelle ripetizioni. È stato Dario Arcidiacono a dirmi: «No, guarda che questa melodia è talmente efficace che uno la vuole ascoltare continuamente».
 
Per concludere, oltre a portare avanti la promozione di Retablo, quali sono i tuoi prossimi impegni? Stai lavorando a qualche altro progetto?
- Sto scrivendo una serie di brani nuovi per il mio quartetto Camera Ensemble, che forse daranno vita a un nuovo CD. Questo quartetto rappresenta per me un’esperienza molto importante, una ricerca sonora originale, sia per gli strumenti impiegati che per la personalità dei musicisti che vi concorrono: Gabriele Coen al clarinetto e sax, Benny Penazzi al violoncello e Andrea Piccioni alle percussioni etniche. È una sfida, per me, vedere come questi brani di ispirazione mediterranea possano essere armonizzati attraverso il linguaggio jazzistico, con molta libertà al loro interno. Cioè la sfida, ormai da anni, consiste nel prendere delle linee melodiche molto riconoscibili, molto cantabili, che però abbiano come substrato una ricerca armonica importante. E continuo in questa direzione.
 
 
Andrea Carpi

 

 

Giovanni Palombo – RETABLO (Acoustic Music Records, 2015)

Giovanni Palombo ci regala il suo quarto album pubblicato dalla label tedesca Acoustic Music Records. Si intitola “Retablo”, è composto da nove brani straordinari e può essere ricondotto a composizioni di chitarra finger style. Delle nove tracce in scaletta, la penultima – intitolata “Oud Rendez-Vous” – è un’improvvisazione live in duo con Kyam Allami all’oud, mentre “Goodbye Park Pie Hat” è un’elaborazione del famoso brano scritto da Charlie Mingus per l’album del 1959 “Mingus Ah Um”.
Sarebbe forse superfluo indugiare sulla bravura di Palombo, che riesce – come ben sa chi segue le sue produzioni – a sintetizzare nelle sue mani e nelle sue dita un panorama musicale amplissimo. Nel quale si succedono, con coerenza ed equilibrio, ritmo, melodia, armonia e richiami a tante suggestioni: dal folk al jazz, fino agli echi di costruzioni che possono essere riconosciute in un’idea di world music contemporanea (mi fermo qui perché la strada è molto scivolosa, specie se, come in questo caso, si frappone tra un’idea e un lavoro artistico non esplicitato in questi termini e il modesto programma di interpretazione sviluppato in queste righe). Ma per dar conto delle articolazioni dei brani che sono confluiti in questo lavoro è necessario partire dall’assetto, dal progetto, in modo da individuare con più chiarezza gli elementi più importanti a cui i brani fanno riferimento. Innanzitutto è fondamentale l’immersione nel suono, in modo da assorbire lo spettro sonoro di ogni corda. E sarebbe già appagante. A questo poi si può aggiungere l’attenzione (più analitica) alla scrittura e all’esecuzione. Che in termini generali e probabilmente inadeguati potremmo definire aperta, libera, estemporanea, perforrmativa. E che, in termini più precisi, definiamo invece strutturata, cioè saldata a un’idea definita, nella quale lo sviluppo di un tema evidentemente centrale ricopre la stessa importanza della precisazione dei dettagli e i suoni portanti poggiano spesso su suoni più secondari (“Total eclipse of the earth”), suonati dentro una dinamica più morbida e di contorno. Come si può leggere in molte delle note che parlano dell’album o, in generale, della discografia di Palombo, si avvertono dei legami con alcune tradizioni espressive ben consolidate. Ma a ben vedere non credo che questo sia particolarmente importante, ai fini non solo della comprensione della musica confluita in “Retablo”, ma soprattutto della visione che i nove brani vogliono esprimere. Ciò che emerge in modo più netto, infatti, è il flusso narrativo della chitarra (ci mancherebbe altro), che si configura dentro un progetto evidentemente personale e (perché no?) introspettivo. Un progetto che lascia senz’altro trapelare la visione inclusiva di una musica composta da parti evanescenti quanto concrete, ricucite dentro una prassi esecutiva mai divergente ma anzi equilibrata e puntuale. Ma che, in definitiva, ha l’obbiettivo di esprimere le articolazioni di un pensiero complesso. Di un pensiero pensato da Palombo e trasfigurato dentro la dinamica di uno strumento che qui diviene molto di più, assumendo i tratti ramificati di un linguaggio pieno di sfumature (“Il sommo artigiano”). La coerenza del progetto è in qualche modo riflessa anche nella selezione e sistemazione dei brani che compongono “Retablo”, imperniati attorno a un suono perfetto e stratificati l’uno sull’altro nel quadro di esecuzioni raffinate e imprevedibili, che attingono a varie tecniche oltre che, come si diceva prima, a varie possibilità narrative. Anche questo è in linea con il dinamismo dell’album, che si configura piuttosto come una successione coerente di impressioni, di storie. Come ci dice lo stesso Palombo, le relazioni tra i brani si muovono tra i due poli dell’indipendenza e della connessione, in modo da garantire una serie di movimenti mai uguali e, allo stesso tempo, sottolineare la laboriosità del programma. Tra i brani più profondi, è importante segnalare “Anna e Maurizio”, in duo con Peter Finger, “Farewell to John” e Halleluya”.

Daniele Cestellini
------------------
Fonte: http://www.blogfoolk.com/2016/06/giovanni-palombo-retablo-acoustic-music.html 

Jazzit Jazz magazine 
Speakers’ Corner
I TANTI PERCORSI POSSIBILI DEL JAZZ  
 

Testo di Giovanni Palombo - foto di Sebastiano Privitero

Fonte: jazzit.it

Giovanni Palombo - Photo Credit To Sebastiano Privitero
 
Colgo volentieri l’invito di Jazzit di scrivere qualcosa riguardo un tema che mi sta molto a cuore, e che in fondo permea la gran parte del mio percorso musicale: l’incontro tra il jazz e le proprie radici culturali. Musicalmente mi sento italiano, con un lascito mediterraneo, e probabilmente rinascimentale, che voglio sempre esprimere. C’è una forza melodica che arriva da lontano, che si lega ai colori dei nostri luoghi; c’è un desiderio di bellezza che è un patrimonio arcaico e che percepiamo in un modo vago ma definito. E, sempre in senso musicale, mi sento anche europeo; come non amare e riconoscere la musica classica del Centro-Europa, quella francese, quella russa e quella spagnola? Anche se non lo sappiamo, per molti essa agisce più o meno consapevolmente, al pari di tutto il rock che abbiamo ascoltato e frequentato più direttamente.
Credo che l’incontro degli stili, la contaminazione, sia il motore che muove la musica. Soprattutto muove il jazz, che nasce proprio come incontro (e anche scontro), di culture diverse. Se si nasce a Roma, a Bologna o a Palermo, nella maggior parte dei casi si esprime qualcosa del retroterra e della cultura che volendo o no si porta dentro, anche se si è ascoltato soltanto jazz americano.
Si tratta allora di prendere coscienza di questo e poi, seguendo le proprie inclinazioni, muoversi più liberamente, e cercare la propria identità. Di fatto è un aspetto che nel jazz si ritrova più spesso di quanto si creda. Nel jazz italiano abbondano gli esempi di inserimenti musicali che diventano jazz ma che partono come retaggio culturale: è capitato nel luglio del 1985, quando João Gilberto si cimentò sul palco del Montreux Jazz Festival, in una struggente versione di Estate di Bruno Martino: da allora si è visto che la canzone italiana poteva essere rivisitata sulle corde dell’idioma afroamericano senza per questo risultare leziosa, anzi. Aldo Romano incise due bellissimi dischi che riprendevano alcuni evergreen della melodia italiana, brani che solo pochi anni prima avrebbero fatto storcere il naso a molti: prima di quei due dischi «soltanto l’idea di una versione jazz di ‘O sole mio o Volare avrebbe fatto rabbrividire» (cito dal bellissimo libro di Nicola Gaeta Una preghiera tra due bicchieri di gin, Caratteri Mobili, 2011).
Da allora in poi l’idea di costruire un jazz che toccasse anche i molti “idiomi” italiani non si è più fermata, inventando strade nuove e nuovi incontri: e cito per tutti il bellissimo “Nauplia” di Rita Marcotulli e Maria Pia De Vito, uscito alla fine degli anni Ottanta. Il jazz ha sempre inglobato gli stili per dire cose nuove e diverse. Pensiamo alle produzioni ECM, al jazz così diverso di Jan Garbarek e dei musicisti europei del Nord-Europa, alle contaminazioni di Ralph Towner e degli Oregon, e poi ancora a Egberto Gismonti. Qualcuno dirà che non è jazz. Ma certamente dentro questa musica c’è il jazz come spirito e azione viva, perché la ricerca supera continuamente i confini degli stili. Del resto questo è un procedimento che in modo anche più evidente: è avvenuto con il rock, grazie anche al contributo di Miles Davis che ha generato nuovi percorsi; e anche in questa circostanza ugualmente dovremmo dire (grande eresia), che Miles in quei casi non fa jazz; e qualcuno lo ha anche detto e scritto.
Forse nel caso italiano si è stabilito per anni una sorta di tabù rispetto alla nostra musica tradizionale, ai riflessi mediterranei, e forse spaventati dal liscio e dalle ninne nanne popolari ci si è dovuti sdoganare da una sorta di provincialismo, negando la provenienza e coltivando solo quello che più lontano da essa poteva essere. E probabilmente questo è servito ad aprire orizzonti nuovi, a migliorare il livello, a incamerare visioni e tecniche che portassero avanti.
Mi sono sempre occupato di musica acustica, suono chitarre acustiche e classiche, e la mia musica si basa su sonorità acustiche. Sono stato il primo a stupirmi scoprendo che il mio percorso, all’inizio vicino ai filoni anglosassoni (mai sentito parlare di Pentangle, JohnRenbourn, etc?), e al blues tradizionale, deviasse verso le inflessioni mediterranee e quelle della musica classica, e che lo studio dell’improvvisazione e dell’armonia moderna portasse a situazioni nuove e più ampie, che tenevano conto in modo più o meno inconsapevole, della mia eredità culturale.
Sono passato attraverso diverse esperienze, concerti e produzioni discografiche, e attualmente sono giunto a un quartetto chiamato Camera Ensemble, dove la musica, tutta originale, nasce proprio dall’incontro di elementi diversi, etnica, jazz, qualche passaggio classico. Anche la strumentazione è particolare, perché oltre alle mie chitarre acustiche è data dal clarinetto e sax di Gabriele Coen, dal violoncello di Benny Penazzi e dai tamburi a cornice (propri della tradizione popolare italiana ma più in generale mediterranea ), di Andrea Piccioni.
Trovo che il bello sia proprio che non si finisce mai di apprendere e di stupirsi dei tanti percorsi possibili, come non si finisce mai di cercare un suono, un lessico, una forma, per raccontare al meglio quello che si vuole dire.
Chitarra Acustica 02/2015
Chitarra, oud, kora
UN'ESPERIENZA T-RICORDA  
 

 Testo di Giovanni Palombo - foto di Cesare Di Cola


Il mestiere di musicista, come sappiamo, riserva spesso delle incognite, ma per fortuna non mancano le belle sorprese. E una bella sorpresa per me è stata quella di suonare per il Festa d’Africa Festival, Festival internazionale delle culture dell’Africa contemporanea, che si è svolto a Roma lo scorso dicembre, affiancando l’africano Pape Sirinam Kanouté, cantante e suonatore di kora (una sorta di arpa-liuto africana), e Khyam Allami, un musicista di oud (il liuto mediorientale).

foto di Cesare Di Cola

 

L’occasione era ghiotta, un trio con kora, oud e chitarra acustica è una formazione del tutto originale, con il valore aggiunto rappresentato dall’incontro di culture musicali diverse. Un trio il cui suono e repertorio erano da costruire e sperimentare. Anche la cornice non era indifferente, perché il luogo era il bellissimo Teatro Torlonia a Roma. Entrambi i musicisti con cui mi trovavo a condividere la serata portano avanti la loro tradizione musicale, ma nella propria rilettura di musicisti dei nostri tempi. Appena ricevuta dalla direttrice artistica del festival, Daniela Giordano, l’offerta di partecipare a questo trio per costruire il Concerto T-ricorda (Il titolo gioca sulla presenza di tre strumenti a corda e sulla parola ‘ricorda’, perché questo concerto era dedicato al musicista africano Duval Olivier, un amico della Festa d’Africa prematuramente scomparso), ho provato subito un forte entusiasmo per il progetto, sentendomi lusingato per la richiesta della mia partecipazione. Ma non posso negare che ho avuto anche momenti di perplessità pensando a quale direzione musicale un trio di questo tipo potesse prendere, per costruire ed eseguire un programma soddisfacente.
Giovanni Palombo (chitarra acustica) - foto di Cesare Di Cola

Tra l’altro mi era richiesto di coordinare e guidare il programma, e avevo un bel pensare a brani, frammenti, riletture. La realtà è che suonare insieme a strumenti che hai solo ascoltato sporadicamente, su CD o dal vivo, e che non appartengono al tuo vissuto musicale, da una parte ti stimola e dall’altra ti suscita dubbi. Inoltre Khyam, il suonatore di oud, sarebbe arrivato soltanto due giorni prima del concerto e, nonostante lo scambio via email di alcuni spartiti, ogni dubbio si sarebbe sciolto soltanto al momento della prima prova. E questo è avvenuto, sull’onda di un entusiasmo comune per questo progetto trasversale, che ha permesso in alcune ore di arrangiare insieme quattro brani, e deciso che ognuno di noi avrebbe anche suonato un breve set solista, per presentare il proprio strumento e per sottolineare la diversità di suono e repertorio. La serata sarebbe poi proseguita in crescendo, con duetti e trii.
Viste le caratteristiche degli strumenti e le tradizioni musicali in gioco, il suono modale avrebbe giocato il ruolo principale, mentre l’improvvisazione, con i diversi colori degli strumenti e degli stili, avrebbe trainato la dinamica, sottolineando a dovere i vari brani. Detto così non sembra troppo complicato, ma il senso ritmico, il gusto estetico e lo stile proprio di ognuno di noi, costituiva sia l’attrazione che in un certo senso il ‘pericolo’ per la nostra interazione. L’esperienza e la pratica di suonare con altri musicisti, con l’attenzione al suono degli altri che questo comporta, sono stati fondamentali e hanno costituito quell’aiuto costante, che permette a ognuno di esprimersi al meglio e di trovare buone soluzioni musicali nei vari brani.
Tanto per capire meglio, ricordo a tutti che la kora è uno strumento con 21 corde (in alcuni modelli fino a 25 corde), un’arpa particolare la cui accordatura viene realizzata in base al brano da suonare. L’oud, diffuso in tutta l’area mediorientale e proveniente dall’evoluzione di un antico strumento persiano, è invece un liuto cosiddetto a manico corto, e nei modelli più comuni ha 5 doppie corde più una corda singola che fa da bordone, quindi in tutto 11 corde. Si suona con il plettro e i suonatori di oud sono spesso dei veri virtuosi dello strumento.
In effetti Khyam Allami ha piuttosto impressionato per il suo gusto e un virtuosismo non fine a se stesso, ma legato profondamente all’espressione. La sua dinamica, dal piano al fortissimo, il languore malinconico delle scale usate, hanno lasciato il segno anche nei brani in solo, dove uno spiccato senso melodico si alternava al fraseggio delle parti improvvisate.
Pape Sirinam Kanouté è un musicista senegalese che si ricollega alla tradizione dei griot. I griot sono i cantastorie, nel senso nobile del termine, di molte regioni africane. Come detentori della conoscenza della tradizione del proprio popolo sono molto rispettati e, attraverso brani cantati e pezzi di sola musica, portano in giro una tradizione orale antichissima, mantenendola in vita. La kora ha un suono ammaliante, spesso circolare, cioè basato sulla ripetizione continua delle frasi musicali, che però subiscono delle microvariazioni, dunque piccole variazioni ma continue. Suonare insieme a questo esecutore significa porre la massima attenzione alla sua dinamica, capire dove egli si apre all’improvvisazione, perché ciò avviene sempre in momenti diversi e non regolari. Lo stesso senso ritmico può risultare improvvisamente variato, con l’introduzione di terzine, sestine e anche gruppi dispari, senza preavviso. Questo crea la magia dell’esecuzione, che altrimenti sarebbe ferma e ripetitiva, e stimola in noi musicisti ‘occidentali’ la capacità di intuire per tempo come si muove il brano.
Da parte mia ho cercato di inserire il mio stile chitarristico world, intendendo con questo termine uno stile aperto ed eclettico per quanto possibile. Poiché ero l’unico strumento realmente armonico – la kora e l’oud sono strumenti fondamentalmente melodici, con poche opportunità di fare armonia – ho lavorato sul groove, su linee di basso, aprendo quando possibile a piccole ‘fughe’ di accordi, inserendo in alcuni momenti accordi jazz e cercando di creare un tappeto sonoro che tenesse insieme gli arpeggi e le frasi degli altri. E quando si creava lo spazio opportuno ho improvvisato, divertendomi tantissimo. È evidente che, mentre in certi momenti occorreva riempire ogni spazio e sovrapporsi, in altri era necessario rarefarsi o farsi ‘liquidi’, cercando nei vari momenti l’enfasi e l’accento dello strumento più opportuno: 38 corde che vibrano insieme sono fantastiche, ma vanno gestite con attenzione!
Il set in solo di Pape Sirinam Kanouté ha aperto il concerto: l’abbigliamento tradizionale senegalese, vivacemente colorato, e la kora che si stagliava verticalmente davanti al musicista, hanno suscitato immediatamente attenzione e creato una certa atmosfera etnica e rituale allo stesso tempo. Il suono ipnotico accompagnava il canto, variando in tanti piccoli rivoli che poi tornavano alla matrice di partenza: un suono delicato e multiforme, continuo eppure in continua trasformazione. Un grande inizio per condurre lo spettatore dentro l’originalità del concerto.
Così, quando si passa all’oud, il pubblico è già immerso in una dimensione inusuale. Khyam Allamy si presenta, racconta un po’ chi è parlando un ottimo italiano, e poi inizia un brano lento, alternando melodia e silenzi, una magia languida di suoni che evocano spazi aperti e meditazione, per precipitare poi improvvisamente negli spazi affollati dei mercati: con il procedere dei brani emergono immagini affascinanti, i continui melismi e abbellimenti del fraseggio ci fanno assaporare un linguaggio musicale ricco e diverso. Il brano finale esplode in un intreccio di ‘fughe’ di sapore bachiano e improvvisazioni su scale orientali, fino ad una impennata ritmica che coinvolge tutti.
Al mio turno, con la mia Lakewood acustica suono due mie composizioni, “Hallelujah”, un brano gospel che mi sembra adatto a continuare quanto aperto da Khyam, e “Inafferrabile”, un pezzo evocativo lento e denso. Concludo il set entrando in un’atmosfera più mediterranea, senso melodico intenso e passaggi jazz con alcuni spazi improvvisativi. Il pubblico sembra apprezzare molto anche la varietà di suono e repertorio: la scelta di presentare i singoli strumenti sembra essere quella giusta.
Il successivo brano è un’improvvisazione in duo con Khyam Allami, oud e chitarra: un tappeto in Do minore in cui iniziamo lentamente con dei fraseggi ‘domanda e risposta’, che via via diventano più incalzanti. Moduliamo in Do maggiore, come avevamo stabilito: io porto un riff iniziale su cui l’oud si poggia in un continuo di frasi improvvisate, poi ci scambiamo i ruoli. Il gioco di rimpallarci le note è molto coinvolgente: mentre suoniamo ci ascoltiamo attentamente, ci sentiamo in sintonia e cerchiamo di sovrapporci, ma sempre mantenendo un senso di equilibrio, guidati dall’improvvisazione. Concludiamo in crescendo con un bell’unisono. Il pubblico apprezza molto.
Il concerto prosegue in trio, ci raggiunge Pape con la sua kora. È il momento di un canto tradizionale africano che parla dell’incontro e dello scambio tra persone diverse, un tema fondamentale nell’ambito di questo festival. La kora esegue una frase circolare ripetitiva, la chitarra acustica tesse passaggi sui bassi e frammenti di accordi, l’oud crea abbellimenti e variazioni. Il canto si dispiega con tipiche inflessioni africane, creiamo spazi improvvisati in cui ci alterniamo e ci sovrapponiamo, una cascata di note che è la somma di colori diversi. In una dimensione sempre modale, l’omaggio a Duval Olivier si concretizza con l’esecuzione del suo brano “El mismo cielo”, una rilettura di questa canzone in una versione soltanto strumentale, in cui i tre strumenti hanno dei ruoli più definiti. Chiudiamo la serata con un bis basato su una ninna nanna africana, dolce e cullante, ipnotica e giocata su moduli di alcune battute di durata diversa. Il ritorno al modulo principale è lasciato all’interplay dei musicisti che mettono così alla prova la loro sensibilità musicale e la loro interazione.
Quasi due ore di concerto mi lasciano felice di un’esperienza emozionante e istruttiva. E la conferma che l’incontro delle diversità è la chiave più importante per l’arricchimento reciproco.

Giovanni Palombo

Giovanni Palombo (chitarra acustica), Pape Sirinam Kanouté (cantante e suonatore di kora) e Khyam Allami (musicista di oud)- foto di Cesare Di Cola

Pagina 1 di 2
Privacy Policy

Un libro sull’improvvisazione per chitarra fingerstyle è raro. L’argomento può interessare chiunque suoni lo strumento con le dita, quindi chitarristi acustici e classici, ma anche fingerstyler della chitarra elettrica. Gli studi presentati prendono spunto dal jazz moderno, dal blues, dalla chitarra classica e dalla world music: una miscela che rende la chitarra moderna universale e versatile, legata ai linguaggi ma potenzialmente aperta a tutte le possibili direzioni. Leggi

Vai all'inizio della pagina